Pagine da scoprire
Don Peppe fu stupito, quando glielo annunciai:
«E pecché ve ne andate? Che peccato, io mi dispiaccio molto, credetemi, e non solo perché siete una buona cliente, tranquilla, che non fa questioni. Mi ero, come dire, affezionato a voi. E voi a noi, vero?
Non vi ho sentito criticare mai, questa è la più grande qualità che tenete. Quando la gente viene qui, di solito dice: che vergogna, questo paese dove non ci sta lavoro, bisogna fare qualcosa, perché nessuno fa niente. E poi se ne va. Tutti parlano, parlano... hanno pure scritto un libro, ora non mi ricordo bene, un collega vostro. Settimiano un paese dove... dove la vita vale… non vale niente, mi pare. E pe’ forza che non vale niente! C’ha da vale’ la vita di uno che non tiene niente da fare? Che vive di espedienti? Che non porta a casa il pane per i suoi figli? Non fa il dovere suo, quindi non vale niente, vi pare? E come lo rispetta la moglie sua che deve arrangiarsi a mandare avanti la famiglia come se non tenesse marito? Meglio morire, in questo caso. Un uomo inutile è meglio che muore, che si leva di mezzo, no? Voi, il lavoro vostro l’avete fatto? Voi siete ‘na femmena, con tutto il rispetto, ‘na femmena con gli attributi, con decenza parlando. Ora scriverete, vero? Gesù, mi piacerebbe... me lo mandate un libro, quando l’avete scritto? E a coppa ci scrivete il nome mio che si vede che ci abbiamo conosciuto. Tornate, qualche volta, qui siete sempre ben accetta.»
Non sapevo decidermi a chiudere le valige; andavo svogliata in giro per la stanza cercando di preparare ordinatamente i bagagli com’era mia consolidata abitudine fare, alla fine di ogni viaggio di lavoro.
Finalmente, riuscii ad allinearli ai piedi del letto disfatto, gonfi, pesanti e sformati come di chi si trova a portare via molto di più di quanto gli fosse inizialmente riuscito di prevedere.
Invece della soddisfazione abituale mi abitava una sensazione di fallimento, di incompiutezza alla quale non riuscivo a rassegnarmi, pur non avendo altra scelta.
Lasciai tutto così com’era. Si era fatto tardi e desideravo salutare altre persone. Scesi dunque ad avvisare l’edicolante che, dal giorno successivo in poi, non avrebbe dovuto conservarmi i giornali.
«Così ve ne andate. Bene, grazie di avermi avvertito. Fate buon viaggio e auguri per il vostro libro. Quando sarà stampato lo venderò anch’io, ma solo se avrete scritto la...»
«Non dargli retta - intervenne zi’ Mario - lui venderà, venderà. Te ne vai. Hai ragione, ancora non ho capito che sei venuta a fare davvero... Ma, qualunque cosa fosse, è finita. Ci dimenticherai, ti dimenticheremo.
Tu sei come un sasso buttato in un lago: quando cade fa rumore, suscita onde concentriche e alte assai. Poi, man mano si allontanano, fino a che si perdono. Il sasso è andato a fondo e non si vede più. E chi l’ha gettato neanche si ricorda: il lago è ritornato esattamente uguale a prima sulla superficie. Un gioco, insomma, solo un gioco che non cambia la realtà.
Hai finito di giocare? Perfetto, anch’io mi sono divertito per qualche giorno a chiacchierare con te, ma da domani torno a leggere il mio giornale in pace, che è meglio.
Noi siamo tutti come formiche che camminano una dietro all’altra. Ogni tanto qualcuno dà una pedata e si compiace perché vede che corriamo in giro come dei pazzi. Allora, soddisfatto, se ne va. Invece, se restasse, si accorgerebbe che, appena ci siamo riavuti dallo stupore - eh sì, siamo più che altro meravigliati dall’energia che quello ha sprecato per dare la pedata - dicevo, appena ci siamo riavuti, torniamo a fare le stesse strade di prima, come se la pedata non fosse mai esistita. E, caso mai, ridiamo. Hai mai sentito le formiche ridere? No? Certo, dalla tua altezza non le senti, bisognerebbe mettere l’orecchio a terra, diventare formiche, ma nessuno lo fa. Tu formica non diventerai mai. E non so se è un complimento.»
Se ne andò, lasciandomi lì in piedi con la netta impressione che tutti sapessero e approvassero la mia partenza.
(Tratto da: Il castello di San Michele)
©Laura Caputo
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