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PARIGI, OVVERO LA SCOPERTA DEL COUS COUS, Laura Caputo

Pagine da scoprire


Paul Almasy, The girl at the phone,Paris 1960s

Avevo poco più di vent’anni e mettevo piede in Francia per la prima volta.

Tutti, ve lo assicuro, si sentono provinciali il primo giorno a Parigi, quindi anch’io: non so da che cosa dipenda, forse dall’eleganza degli edifici Haussmann lungo i viali alberati del centro, forse dai parigini, che sembrano guardarvi con un sopracciglio inarcato mentre in realtà non vi vedono affatto e stanno spazientendosi perché qualcosa li rallenta.

Tutto aveva cominciato ad andare storto quando, dopo quasi venti ore del rapido Milano-Parigi, avevo chiesto un caffè al bar di Gare di Lyon e mi avevano servito una copiosa bevanda di un marrone blando, dentro una grande tazza verde scuro.

Non avevo protestato: il caffè parigino era quello, tanto valeva che mi abituassi.

Era il Primo Maggio e, per la strada, tendevano mazzolini di mughetti.

Oh, gentilezza dei francesi! Anche a me straniera? Che emozione avevo provato inalando il profumo delle bianche campanelline. Il mughetto porte-bonheur non porta fortuna, ma – raffinatezza e precisione della lingua francese – porta felicità.

E, mentre questo pensiero turbinava nel mio ammirato cervello, il donatore si faceva pressante, tendendo la mano per farsi pagare:

Deux francs, mademoiselle, ça fait deux francs!” e così imparai che, a Parigi, nessuno ti regala niente.

Avevo raggiunto la mia chambre de bonne, al sesto piano di un edificio Haussmann senza ascensore: era tutto ciò che potevo permettermi , ma ne avevo preso possesso con il cuore in tumulto un po’ per l’affanno e un po’ per l’orgoglio di esserci arrivata senza chiedere nulla a nessuno.

Avevo messo ordine nei bagagli, telefonato ai genitori dall’apparecchio a gettoni lì di fronte, scritto una lunghissima lettera nella quale raccontavo viaggio, scoperte e sistemazione.

Si era fatto buio ed era ormai ora di cena. Decisi che avrei cercato una trattoria senza troppe pretese. Infatti subito la individuai, completamente vuota, tendine bianche alle vetrine, tavolini apparecchiati ordinatamente in una piccola sala.

“Che cosa desidera, Mademoiselle?”

Une soupe.” Risposi entusiasta, perché potevo finalmente esibire le competenze linguistiche e la conoscenza degli usi francesi che spesso impongono una minestra per cena.

“Non c’è nessuna soupe, Mademoiselle…” Le mie certezze cominciavano a sgretolarsi.

Un hors-d’oeuvre alors.” I francesi mangiano sempre un antipasto.

“Non c’è nessun antipasto, Mademoiselle…”

“Che cosa c’è, dunque?” provai a chiedere, mentre dentro di me tutto crollava.

“Soltanto il cous cous, come tutte le sere di festa.” Non chiesi cos’era: lo ordinai.

Fui allibita quando vidi arrivare un enorme vassoio con una zuppiera, una pentola, un mestolo, un piatto con diversi tipi di carne, qualche ciotolina… Il mio stupore doveva essere evidente perché il cameriere, con un tono che mi parve complice, propose di “prepararmelo”, ciò che riconoscente subito accettai.

Un peu d’Harisa*?” Sicuro che volevo un po’ di Harisa: peccato che, fino ad allora, ne avessi ignorato perfino l’esistenza, figuriamoci il sapore e la composizione. Ne aggiunse una mezza cucchiaiata e il brodo assunse uno strano colore rossastro.

Sorridendo, assaggiai il piatto colmo e gli occhi mi si riempirono di lacrime: non ero preparata, ma ingoiai fino all’ultimo grano, perché intorno a me ora la sala era colma di gente, solo uomini. Quella era una trattoria algerina – scoprii poi - e i francesi non la frequentavano perché troppo marcatamente araba. Solo io.

©Laura Caputo


[*probabilmente ora tutti sanno che l’Hariza o Harisa è composta da peperoncino, aglio e olio, più qualche altra spezia quale il cumino o il coriandolo, a seconda dei gusti e delle zone]


 

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