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IL CONTE DI MONTECRISTO, Alexandre Dumas

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Carnevale romano, Wilhelm Widel, 1852

Era vero quello che diceva il conte: niente nella vita crea più curiosità dello spettacolo della morte.

Invece del silenzio che la solennità dello spettacolo sembrava esigere, da quella folla saliva un gran frastuono di risate, di urla e di grida gioiose; era evidente, come aveva detto il conte, che per tutta quella gente l’esecuzione non era nient’altro che l’inizio del carnevale.

All’improvviso quel rumore cessò come per incanto: la porta della chiesa si era aperta.

Apparve per prima una confraternita di penitenti, ognuno vestito di un sacco grigio con due fori per gli occhi e con in mano un cero acceso; in testa marciava il capo della confraternita.

Dietro i penitenti veniva un uomo di alta statura; era nudo, tranne un paio di brache di tela al cui lato sinistro era appeso un gran coltello nascosto nel suo fodero; portava sulla spalla destra una pesante mazza di ferro. Quell’uomo era il boia.

Aveva poi dei sandali allacciati ai polpacci con delle corde.

Dietro il boia camminavano, nell’ordine in cui dovevano essere giustiziati, prima Peppino e poi Andrea.

Ognuno di loro era accompagnato da due preti.

Né l’uno né l’altro aveva gli occhi bendati.

Peppino camminava con passo assai fermo; senza dubbio era stato avvertito di quanto si preparava per lui.

Andrea era sorretto per le braccia dai due preti.

Entrambi baciavano di tanto in tanto il crocifisso che presentava loro il confessore.

Soltanto alla vista di questa scena Franz sentì che gli cedevano le gambe; guardò Albert. Era pallido come la sua camicia, e con un moto istintivo gettò lontano il sigaro, benché non ne avesse fumato che la metà.

Solo il conte sembrava impassibile. Anzi, sul livido pallore delle sue guance sembrava affiorare un leggero colorito rosato.

Le sue narici si dilatavano come quelle di un animale feroce che fiuti il sangue, e le labbra, appena socchiuse, lasciavano intravedere i denti bianchi, piccoli e aguzzi come quelli di uno sciacallo.

Eppure, nonostante ciò, il suo viso aveva un’espressione di sorridente dolcezza che Franz non gli aveva mai visto; i suoi occhi neri, soprattutto, erano mirabilmente mansueti e vellutati.

Intanto i due condannati continuavano a camminare verso il patibolo, e via via che avanzavano si riuscivano a distinguere i tratti dei loro volti.

Peppino era un bel giovane dai ventiquattro ai ventisei anni, abbronzato dal sole, dallo sguardo libero e selvaggio. Camminava a testa alta e sembrava fiutare il vento per scoprire da quale lato sarebbe giunto il suo liberatore.

Andrea era grosso e basso: il viso, volgarmente crudele, non indicava la sua età; ma poteva avere una trentina d’anni. In prigione si era fatto crescere la barba. Teneva la testa reclinata su una spalla, e gli si piegavano le gambe; tutto il suo essere sembrava obbedire a un movimento meccanico al quale era estranea la sua volontà.

«Mi sembra – disse Franz al conte, – che aveste parlato di una sola esecuzione».

«Vi ho detto la verità» rispose con freddezza.

«Ma ci sono due condannati».

«Sì, ma di quei due condannati uno sta per morire, mentre l’altro vivrà per molti anni ancora».

«Ma la grazia non è ancora arrivata, non c’è più tempo da perdere».

«Eccola che arriva, guardate» disse il conte.

Infatti, nel momento in cui Peppino arrivava ai piedi della mannaia, un penitente che sembrava in ritardo ruppe la fila dei soldati senza che il suo passaggio venisse ostacolato e, avvicinandosi al capo della confraternita, gli consegnò un foglio piegato in quattro.

Lo sguardo ardente di Peppino non aveva perduto nessuno di quei particolari; il capo della confraternita aprì il foglio, lo lesse e alzò la mano.

«Il Signore sia benedetto, e sia lodata Sua Santità! – disse con voce alta e chiara. – È fatta grazia della vita a uno dei condannati».

«Grazia! – gridò il popolo con un solo grido; – c’è la grazia!»

Alla parola “grazia” Andrea sembrò sobbalzare, e rialzò la testa.

«Grazia per chi?» gridò.

Peppino restò immobile, muto e ansimante.

«C’è la grazia della pena di morte per Peppino detto Rocca Priori» disse il capo della confraternita.

E passò il foglio al capitano dei carabinieri, che dopo averlo letto glielo restituì.

«Grazia per Peppino! – gridò Andrea, completamente risvegliato dal torpore in cui sembrava precipitato; – perché la grazia per lui e non per me? dovevamo morire insieme; mi era stato promesso che sarebbe morto prima di me, non avete il diritto di farmi morire da solo; non voglio morire da solo, non lo voglio!»

E si aggrappò alle braccia dei due preti, contorcendosi, urlando, ruggendo e compiendo sforzi insensati per spezzare le corde che gli legavano le mani.

Il carnefice fece un gesto ai suoi due aiutanti che saltarono giù dal patibolo e si impadronirono del condannato.

«Che sta succedendo?» domandò Franz al conte.

Perché, dato che tutti parlavano in dialetto romano, non aveva ben capito.

«Che sta succedendo? – disse il conte; – ma non capite? Succede che quella creatura umana che sta per morire è furiosa perché il suo simile non muore con lei, e se la si lasciasse fare lo sbranerebbe con le unghie e con i denti piuttosto che lasciarlo godere della vita di cui sta per essere privata. Oh, uomini! uomini! razza di coccodrilli! come dice Karl Moor12 – esclamò il conte tendendo i pugni verso tutta quella folla, – come vi riconosco, e come siete degni di voi stessi in ogni occasione!»

Infatti Andrea e i due aiutanti del boia si rotolavano nella polvere, e il condannato continuava a gridare:

«Deve morire, voglio che muoia! Non hanno il diritto di uccidere solo me!».

«Guardate, guardate – continuò il conte afferrando ognuno dei due giovani per la mano, – guardate, perché è una cosa davvero curiosa: ecco un uomo che era rassegnato alla propria sorte, che camminava verso il patibolo, che stava per morire come un vile, è vero, ma andava a morire senza resistenza e senza recriminazioni. Sapete che cosa gli dava un po’ di forza? Sapete che cosa lo consolava? Sapete cosa gli faceva accettare il supplizio con rassegnazione? Il fatto che un altro condivideva la sua angoscia, che un altro sarebbe morto come lui, che un altro sarebbe morto prima di lui! Portate al macello due montoni o due buoi, e a uno di questi fate capire, se vi riesce, che il suo compagno non morirà: il montone belerà di gioia, il bue muggirà di piacere; ma l’uomo, l’uomo che Dio ha fatto a sua immagine, l’uomo al quale Dio ha imposto come prima, unica, suprema legge l’amore per il prossimo, l’uomo al quale Dio ha dato una voce per esprimere il suo pensiero, quale sarà il suo primo grido quando saprà che il suo compagno è salvo? una bestemmia. Onore all’uomo, questo capolavoro della natura, questo re della creazione!»

E il conte scoppiò a ridere, ma di un riso terribile che rivelava quanto avesse dovuto orribilmente soffrire per arrivare a ridere in quel modo.

Intanto la lotta continuava, ed era uno spettacolo spaventoso. I due aiutanti trascinavano Andrea sul patibolo; tutto il popolo si era schierato contro di lui, e ventimila voci gridavano insieme: «A morte! a morte!».

Franz si fece indietro; ma il conte lo afferrò per un braccio e lo trattenne alla finestra.

«Ma che fate? – gli disse, – provate pietà? In fede mia, è proprio ben riposta! Se sentiste gridare aiuto contro un cane rabbioso, prendereste il fucile, correreste in strada, uccidereste senza misericordia quella povera bestia che in fin dei conti sarebbe solo colpevole di essere stata morsa da un altro cane, e di restituire ad altri ciò che è stato fatto a lei. Ed ecco che avete pietà di un uomo che nessun altro uomo ha morso, e che ha ucciso il suo benefattore, e che ora, non potendo più uccidere perché ha le mani legate, vuole con tutte le sue forze veder morire il suo compagno di prigionia, il suo compagno di sventura! No, no, guardate, guardate».

La raccomandazione era diventata quasi inutile, perché Franz era come affascinato dall’orribile spettacolo. I due aiutanti avevano portato il condannato al patibolo, e là, nonostante i suoi sforzi, i suoi morsi, le sue grida, lo avevano costretto a mettersi in ginocchio. Intanto il boia si era piazzato di lato, con la mazza sollevata; a un suo segnale i due aiutanti si scostarono. Il condannato tentò di rialzarsi, ma prima di averne avuto il tempo la mazza si abbatté sulla sua tempia sinistra; si udì allora un rumore sordo e cupo: il condannato cadde come un bue, la faccia a terra, poi per il contraccolpo si rovesciò sulla schiena; allora il boia abbandonò la mazza, prese il coltello dalla cintura, con un solo colpo lo sgozzò e, saltandogli sul ventre, si mise a pestarlo con i piedi.

A ogni pressione, un fiotto di sangue sprizzava dal collo del condannato.

Questa volta Franz non ce la fece più; si gettò all’indietro e si lasciò cadere quasi svenuto su una poltrona.

Albert, con gli occhi chiusi, rimase in piedi, ma aggrappato alle tende della finestra.

Il conte era in piedi e trionfante come l’angelo del male.


(da: Il conte di Montecristo, Alexandre Dumas)


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  • Editore: Garzanti Libri (5 maggio 2011)

  • Collana: I grandi libri

  • Lingua: Italiano

  • ISBN-10: 8811379679

  • ISBN-13: 978-8811379676


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