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RIPAFERDINE (storie di cortile), Paolo Vitaliano Pizzato

Pagine da scoprire


I giorni, le settimane, i mesi di scuola trascorrono così. Tra lezioni e lunghe camminate fino a casa. Le strade percorse a passo lento, sempre uguali a se stesse, sembrano accogliere con rassegnazione la lenta usura del tempo, la cadenzata eredità delle stagioni; lingue di cemento spazzate da folate di vento gelido, sature di pioggia come immense spugne, e ancora accese dalla luce della primavera, che pare trasformarle nell’opaco specchio del cielo sovrastante, e un attimo più tardi sfiancate dall’implacabile avanzare dell’estate. Negli interminabili pomeriggi bagnati di sole, Emilio attraversa il cortile in bicicletta. Instancabile. Seduto sulla Graziella blu di sua madre, le lunghe gambe che premono sui pedali, i capelli schiacciati sulla fronte dal sudore, ha l’aria felice. Sorride, e risponde con gesti rapidissimi del braccio destro ai saluti che gli piovono addosso da tutti noi. Quando la mano lascia il manubrio, la bicicletta sbanda, si scuote tutta come fosse attraversata da una corrente elettrica; Emilio asseconda come può l’oscillazione del mezzo torcendo il busto, poi tocca il freno per un istante, riappoggia la mano e riprende il controllo. E allora eccolo di nuovo spingere con forza sui pedali, riprendere velocità. Non gioca mai con nessuno; si limita a correre da un capo all’altro del cortile a bordo della bici, con la sua ombra schiacciata per terra come unica compagna. Poi giunge la sera. La luce declina lentamente, come un ospite educato; lascia ancora tempo a noi ragazzi, ai nostri giochi, ci guarda con benevolenza, come farebbe un vecchio accomodato su una panchina. Alla spicciolata, ognuno di noi si avvia verso casa, le spalle curve simili ad ali ripiegate. Alcuni si allontanano abbracciati, ridono, parlano concitatamente, quasi avessero solo quei pochi minuti prima della cena per confessarsi segreti, emozioni, desideri; altri alzano furtivi gli occhi alle finestre aspettandosi di veder comparire, da un momento all’altro, la madre o il fratello maggiore; altri ancora affrettano il passo, il volto acceso di un rossore acerbo, gli occhi che scintillano di gioia. Per tutti, l’appuntamento è di lì a un paio d’ore, di nuovo nel cortile, che al buio somiglia a un’enorme tasca, per tornare a ridere, a parlare, a giocare a nascondino; per imparare ad amarsi, ad amare. Per tutti, escluso Emilio. Lui arriva per ultimo e si sistema vicino al portone. Di nuovo, risponde al nostro saluto con un lento gesto della mano, oppure rovesciando la testa all’indietro; sorride, e subito dopo siede sul marciapiede, le braccia poggiate sulle ginocchia, la schiena dolcemente curva. Sembra sereno; il volto è quello di tutti i ragazzi della sua età, limpido, vergine, e gli occhi guardano la vita come fosse una promessa mantenuta. Ci sono anni, per ciascuno di noi, in cui il dolore si comporta come il più timido e educato degli ospiti. Anni che scivolano via fugaci come ombre. Fissa i palazzi che lo circondano, Emilio, e con la complicità del cielo nero li ridisegna, trasformandoli in ciò che vuole. Di notte niente è come sembra, per questo a lui piace così tanto, per questo non dorme, per non perdere nulla del cortile che in quelle ore appartiene solo a lui. Il nostro chiassoso giocare non lo interessa e non lo disturba; tutto ciò di cui ha bisogno per sentirsi bene è alzare la testa, fissare un punto qualsiasi tra i tetti delle macchine parcheggiate e immaginare. Il più delle volte sua madre, quando esce di casa per chiamarlo (è sempre lei che lo fa, il padre evita di mostrarsi), lo trova così, completamente immerso nel suo mondo. Gli sfiora la testa con la mano, un gesto delicato, una carezza trattenuta, proprio come se dovesse destarlo da un sogno, poi si china su di lui e gli sussurra qualche parola all’orecchio. Emilio non si scompone, ha sentito ma fa finta di nulla. Rimane ancora per qualche minuto abbracciato alla lanterna magica della notte, a scartare i suoi doni, ad assaporare quella felicità che si è costruito da solo, pezzo per pezzo, poi si alza, il cuore traboccante d’emozione. Nella sua stanza assapora il silenzio prima di infilarsi a letto. Spegne la luce e si concentra sul suo respiro mentre apre e chiude gli occhi, a intervalli regolari, per cercare di capire quale tipo di buio preferisce, se quello viscoso e impenetrabile come petrolio che lo circonda prima che si addormenti o quello così simile alle sfumature d’oscurità che ha appena abbandonato. Profili di mobili al posto delle case, la forma del suo corpo sotto il lenzuolo, la mano, stesa davanti a sé, che si indovina appena, il rettangolo del tappeto sul pavimento; ogni cosa, nello spazio che ha intorno, rimane uguale a se stessa. Qui la particolare magia che si accende in cortile non sembra ripetersi; Emilio non si chiede il perché, si limita ad arrampicarsi con lo sguardo sulle cose e a ridiscenderne, come se passeggiasse; parte e torna a se stesso più volte prima di voltarsi verso la finestra per riprendersi un po’ dello spazio che ha appena salutato. Dal suo posto riesce a vedere il palazzo in cui abita Antonia; arriva solo fino al secondo piano, lei sta all’ultimo, così la raggiunge con il pensiero, con l’immaginazione. Ma questa volta non inventa nulla. Dentro casa, è come se la sua capacità di sognare venisse meno; forse perché dappertutto Emilio respira l’amore incondizionato di sua madre, che oscuramente pensa di non meritare, forse perché non riesce a non sentirsi in colpa per il suo stato, o perché, per ogni minuto che trascorre chiuso tra queste mura che dovrebbero essergli amiche, avverte crescere dentro di sé l’urgenza di chiedere scusa ai genitori per come è, per la sua anormalità che costringe quell’uomo e quella donna a essere diversi da tutte le altre coppie, normali, perfettamente normali eppure sbagliati, e a vergognarsi per questo; più probabilmente perché sa che tra qualche ora suo padre, come fa ogni giorno da quando i medici gli hanno spiegato come è veramente quel figlio tanto desiderato, uscirà per andare al bar. Da Gregorio, a bere qualcosa.

[Tratto dal romanzo: Ripaferdine (storie di cortile)]

©Paolo Vitaliano Pizzato

 

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