Pagine da scoprire
Ricordi di Pasquetta.
Dovevo avere più o meno quattordici anni.
Era una vera giornata di primavera, di quelle che ormai non usano più.
In quell’epoca, il Lunedì dell’Angelo, le famiglie finalmente uscivano, approfittando del diritto di divertirsi: alcune andavano a fare una gita fuori porta, con il cestino del picnic pieno di cibarie, un fiasco di vino, alcune bottiglie d’acqua confezionate con due bustine che, mischiate, producevano bollicine scoppiettanti sulla lingua e retrogusto acido, come quello di limone. Poco prima del ritorno raccoglievano un’insalata coriacea e selvatica le cui foglie lunghe e amare spuntavano dappertutto perfino nelle crepe dei marciapiedi: l’insalata matta come la chiamavamo allora, il tarassaco come lo chiamo ora.
La si mangiava di sera, con qualche foglia di menta e uno spicchio d’aglio, insieme alle uova sode: una cena povera che avrebbe dovuto compensare l’opulenza dei pasti precedenti.
Si andava anche al luna park.
Nessuna ragazza vi si sarebbe mai avventurata da sola: per questa ragione - già da qualche giorno - m’industriavo a provocare una serie di eventi favorevoli a decidere i miei genitori che la logica conclusione della giornata poteva avvenire esclusivamente fra tirassegni e autoscontro.
Ero anche particolarmente tesa a evitare tutte quelle discussioni, fraintendimenti e sgarbi involontari che, generando un’atmosfera appena meno che serena, li avrebbe dissuasi sia dall’atteggiamento festaiolo sia dall’inconsueta prodigalità, necessaria per godere di alcuni degli straordinari divertimenti offerti. C’era anche mia cugina Adriana. Lei era già un’adolescente bruna, alta e formosa, quindi da sorvegliare più attentamente; suo padre, ancor più restio del mio a concedere uscite stravaganti, le permetteva questa, uno sguardo d’intesa al cognato, fra uomini:
«Nico’, non ti dico niente...» e aveva detto tutto.
In quel luogo di perdizione c’era ressa: quasi tutti gruppi famigliari, ma un po’ sparsi, perché i padri e i fratelli maggiori non sapevano rinunciare a misurarsi al tirassegno, gloriandosi con le signore dei colpi meglio riusciti. In quel preciso istante, la sorveglianza si allentava e noi ragazze potevamo sgusciare via, verso altre, più femminee attrazioni.
Adriana e io quell’anno volevamo a tutti i costi un pesce rosso: sarebbe bastato riuscire a lanciare, in uno qualsiasi dei boccali che li conteneva, una delle sette palle di plastica colorata che avevamo ricevuto in cambio di cinquanta sudatissime lire estorte con perizia ai relativi genitori. Ma i pertugi erano appena sufficienti al passaggio e le palline dotate di allegra vita propria, per nulla desiderose di galleggiare sopra i pesciolini guizzanti.
Avevamo ormai esaurito le nostre munizioni e ci guardavamo sconsolate perché, di chiedere altre monete, non se ne parlava proprio.
Avevamo già goduto dello zucchero filato, della Pesca Miracolosa, del Tunnel della Strega, delle Montagne Russe e perfino dell’Autoscontro. Anzi, quest’ultima attività, di solito riservata ai maschi, doveva esserci stata concessa più per distrazione che per cosciente e libero assenso. Ne eravamo talmente convinte che, finiti i gettoni, ansanti e un po’ malconce, ci eravamo scrupolosamente riassettate prima di presentarci al cospetto dei genitori e non avevamo nemmeno accennato alla possibilità di ripetere l’esperienza.
Accadeva che Roberto, il decenne fratello di Adriana, involontariamente distraesse mio padre dalla sorveglianza chiedendogli e ricevendo dotte, dettagliate e maschili istruzioni per l’utilizzo della carabina ad aria compressa.
«Appoggialo bene contro la spalla... così, socchiudi l’occhio e trattieni il resp... no! L’occhio sinistro, non quello destro, non sei mica mancino! Già, sei troppo piccolo!»
Poi Roberto si era forse scocciato e aveva preso a bighellonarci intorno, chiedendo ora un gettone ora una pallina, a seconda delle attrazioni. Mentre tentavamo la sorte al banco dei pesci, era rimasto a distanza, apparentemente disinteressato.
Stavamo dunque considerando con desolazione l’insuccesso e la conseguente necessaria rinuncia al possesso di un pesce rosso, quando si era avvicinato un soldatino in uniforme, giovane e un po’ intimidito. Teneva nella mano un sacchetto di plastica trasparente rigonfio d’acqua e lo tendeva verso di noi:
«Signorine, l’ho vinto, ma non posso portarlo in caserma, naturalmente. Sono in libera uscita e lontano da casa. Se non vi offendete, ve lo offro volentieri. Ho visto che vi sarebbe piaciuto vincerne uno... Mi fareste un vero favore…»
Avevo teso la mano, pensando confusamente: “In fondo che male c’è? In caserma morirebbe...”
Erano arrivati i genitori e si erano felicitati della nostra fortuna:
«Bisogna presto trovargli una vaschetta di plastica, non può rimanere a lungo nel sacchetto... », commentava la mamma, tutto sommato contenta di trovare un motivo per abbreviare la sua permanenza in un luogo tanto affollato.
«Che cosa mangia?» chiedeva, più pratico, mio padre.
«Non l’hanno vinto», aveva subito interrotto Roberto, spinto da chissà quale complicità maschile, «se lo sono fatto regalare da un soldato.»
L’atmosfera divenne gelida come quella di una luminosa giornata d’aprile improvvisamente oscurata da un temporale.
«Un soldato? E dov’è quel soldato che mi manca di rispetto e vi fa un regalo senza il mio permesso?»
Il soldato non c’era più. Il sacchetto passava, pericolosamente sgocciolante, dalle mani dell’uno che lo osservava con disprezzo a quelle dell’altro che, riconoscendovi l’espressione materiale e incancellabile della nostra vergognosa colpa, voleva a tutti i costi disfarsene.
Alla fine lo portammo a casa, il pesciolino rosso. Fu chiamato, per tutta la sua lunga vita, “il soldatino”.
©Laura Caputo
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