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DELATORI, Mimmo Franzinelli

Di libri e di letture

“Ho avuto montagne di lettere anonime, come si può pretendere di togliere agli italiani le loro caratteristiche nazionali, vigliaccheria e falsità cordiale?” (capitano S.A., ufficiale della Polizia politica della RSI, in servizio a Milano e a Torino)


Questa è la storia della bassezza morale di migliaia d’italiani: persone comuni, avvocati, professori, clericali, rabbini, ebrei, gerarchi, ricchi e poveri che volontariamente si fecero confidenti del regime. Per denaro, per gloria, per cattiveria.


Il fenomeno delle delazioni nell’Italia di Mussolini arrivò a livelli mai visti. A iniziare dal ’26, con l’entrata in vigore di nuove leggi, divenne reato punibile con vari gradi di severità criticare il duce e il regime, detenere o diffondere stampa antifascista, esprimere dissenso o malcontento. Negli anni ’30 si aggiunsero i provvedimenti antisemiti e dall’entrata in guerra fino alla caduta del fascismo, aumentando gli oppositori del regime, crebbe il numero dei soggetti perseguibili. Manna dal cielo per i delatori.

L’informatore riceveva, in cambio della soffiata, denaro o beni alimentari, e se la denuncia era sottoscritta, si garantiva la segretezza.


La delazione non fu solo fonte di guadagno, fu anche strumento per salire di un gradino la scala gerarchica, prendere possesso dei beni altrui, ottenere favori. In qualche caso salvarsi la pelle.

Ecco così fascisti mettere in cattiva luce camerati per ottenere un riconoscimento, partigiani passare (per paura o interesse) agli ufficiali della Polizia politica notizie sui propri compagni; ecco commercianti, liberi professionisti e funzionari liberarsi della concorrenza denunciando i colleghi, preti e rabbini offrire collaborazione in cambio di vantaggi materiali; e ancora, ecco ebrei guadagnare 7000 lire per ogni ebreo fatto catturare, e cittadini accusare familiari per vendicarsi di vecchie questioni. Insomma, dichiarare un rivale “nemico della Patria” costava niente e tributava parecchio.


I delatori senza volto agivano per denaro, odio razziale, fanatismo, invidia, vendetta, ambizione. Si firmavano “Un gruppo di fascisti”, “Una camicia nera della prima ora”, “Un fedele suddito del Duce”. Si dichiaravano buoni cittadini. Con le mani pulite e la coscienza lercia.

Il regime sfruttò e premiò generosamente migliaia d’italiani che volontariamente contribuirono all’arresto, alla tortura, alla deportazione e alla morte di tante vittime innocenti.

Il pensiero d’essere corrotti e traditori, i delatori, nemmeno li sfiorò. Forse mancavano di quello spessore morale che rende Uomini gli uomini, Donne le donne.


Il lavoro imponente di Mimmo Franzinelli scopre un tassello infimo e vergognoso della nostra Storia.

Com’è stato possibile per il nostro Paese rialzarsi? Si fa breccia un interrogativo che stizzisce chi vorrebbe cancellare la parte scomoda della Storia: la dimenticanza di “faccende” che avrebbero indebolito l’identità civica del popolo italiano “aiutò la risalita?”..

Dovremmo avere l'onestà di riconoscere che se tanti furono gli italiani che aiutarono, protessero e salvarono ebrei, renitenti, partigiani, se tanti furono quelli che combatterono il regime e sacrificarono la vita per la libertà, tanti (troppi) furono quelli che collaborarono col regime per saziare i propri egoismi. Non possiamo continuare imperterriti a puntare il dito contro gli altri pensando che basti a cancellare le colpe gravissime di cui fummo responsabili. Smettiamola con la favola ipocrita del “cattivo tedesco” e del “buon italiano”. Prendiamo atto di quanto è stato e diciamolo, perdio!: italiani brava gente, ma non tutti.


Questo è un libro da leggere. Aprire gli occhi significa intraprendere un percorso di consapevolezza. È un cammino che dobbiamo affrontare. Non tradiamo la Storia, togliamo di sotto il tappeto le nostre ignominie. Guardiamole, affrontiamole. Rinnegare, tacere o semplicemente chiudere gli occhi non ci rende meno spregevoli di quei delatori.


Termino riportando un episodio (fra i tanti) a memoria di chi dimostrò grande integrità morale. Gesti nobili che devono esortarci a rappresentare la parte migliore degli esseri umani. È la testimonianza di un sacerdote che vegliò per un momento il cadavere del comunista Vito La Fratta, di Sesto San Giovanni, incarcerato a San Vittore il 3 maggio 1944. Fu pestato e torturato dai funzionari dell’Ufficio politico investigativo. Due giorni dopo il suo nome fu depennato dal registro matricolare perché “deceduto”:


Sono entrato nella cella e sono rimasto solo con l’impiccato ch’era stato disteso già sulla branda: un bel ragazzone robusto, dai capelli d’oro e dagli occhi celesti; sembrava un principe di fiaba vestito da galeotto. Ma gli occhi erano rimasti spalancati ed erano immobili e freddi, così freddi che facevan male a guardarli.

Avrà avuto poco più di trent’anni ed era sposato ed aveva già un amore di bimba. E non s’è impiccato per disperazione, ma per non fare male agli altri, per non tradire nessuno. Aveva già subito tre interrogatori, durante i quali era stato atrocemente torturato perché parlasse, perché dicesse i nomi che interessavano gli aguzzini della Polizia speciale. Ed egli sempre muto. A mezzogiorno l’avevano cacciato a furia di calci fuori della camera dell’interrogatorio. Non si reggeva più in piedi, sicché i compagni hanno dovuto sostenerlo e accompagnarlo fino alla sua cella che è al primo piano rialzato del sesto raggio. Tuttavia appena giunto al suo piano, ha tentato di proseguire e, raccogliendo tutte le sue forze, s’è slanciato per le scale con il proposito evidente di buttarsi giù dal più alto terrazzino interno che gira intorno alle celle dell’ultimo piano. I compagni lo hanno raggiunto e ricondotto nella sua cella. Ed egli smaniava e supplicava: “Fatemi morire! Aiutatemi a morire! Alle 4 devo presentarmi ancora all’interrogatorio e non ho più forza, non potrò più resistere, finirò col parlare, non devo parlare, non voglio parlare, non voglio tradire nessuno! Aiutatemi a morire! Datemi qualche cosa! Almeno una lametta di rasoio...”.

I compagni cercarono di calmarlo, gli fecero iniettare della morfina per alleviargli i dolori, gli dettero un po’ di cognac, lo convinsero a buttarsi sul pagliericcio per riposare: “Prima delle 4 verremo noi a svegliarti e ti daremo del cognac”.

Prima delle 4 andarono a svegliarlo e lo trovarono appeso all’inferriata della finestra. S’era impiccato con un pezzo di fil di ferro, forse trovato tra la spazzatura della cella.

Povero ragazzone biondo dai begli occhi celesti senza vita... Mi sono avvicinato per chiudergli quegli occhi che mi sembravano stanchi di contemplare la barbarie degli uomini, che lo avevano spinto al suicidio. Mi sono avvicinato per accarezzargli la fronte bianca come il marmo sotto l’onda dei capelli d’oro, e ho visto un piccolo dettaglio che mi ha riempito di ribrezzo. La sua fronte e la guancia destra erano stampigliate col timbro delle carceri... Gli aguzzini, a mezzogiorno, non si erano accontentati di torturarlo, ma l’avevano ferocemente dileggiato stampigliandogli (certo con grandi colpi) il timbro sulla faccia. Cosicché, su quel volto sigillato dalla morte, si leggeva: “CARCERI GIUDIZIARIE – MILANO”.

Ed era un tremebondo e incancellabile atto di accusa contro coloro che l’avevano spinto a quell’eccesso.

©Librisuldivanodeipigri

 

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  • Editore: Feltrinelli (23 maggio 2012)

  • Collana: Universale economica. Storia

  • Lingua: Italiano

  • ISBN-10: 8807723689

  • ISBN-13: 978-8807723681

 

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