Di libri e di letture
La neutralità favorisce l’oppressore, mai la vittima. Il silenzio aiuta il carnefice, mai il torturato. Elie Wiesel
Collaborazioniste, delatrici, cacciatrici di ebrei, donne in armi. Sono i ruoli che ricoprirono numerose donne italiane, dopo l’8 settembre 1943, decidendo di aderire alla RSI. Denunciarono ebrei e antifascisti, collaborarono, come spie, con nazisti e fascisti; furono parte attiva nelle azioni di cattura, tortura, morte. Alcune entrarono nelle bande nere a fianco dei loro uomini. Tradirono, saccheggiarono, furono autrici di violenze inaudite. Finita la guerra, iniziarono i processi. Gli avvocati delle ex fasciste di Salò escogitarono strategie vincenti. Tranne rarissimi casi, le accusate si professarono innocenti, negarono ogni accusa. Quelle che si trovarono di fronte a prove evidenti dichiararono di essere state costrette, o aver agito per amore di un gerarca nazista o fascista, o di Mussolini, o della patria. A conclusione dei processi, le donne condannate, iniziarono a presentare richiesta di grazia per ottenere la liberazione o, almeno, una riduzione di pena. Nessuna si riconobbe colpevole, nessuna espresse pentimento, nessuna chiese perdono alle vittime. Anzi, affermarono d’essere vittime esse stesse. Vittime di una giustizia che non aveva processato o aveva assolto alti gradi politici e militari del regime, vittime di uno stato economico insufficiente per pagare buoni avvocati e testimoni. Vittime per non aver goduto dell’appoggio di alti prelati o del Vaticano. In sostanza, reclamavano la grazia come atto di giustizia. Molte imputate furono assolte, le condannate non scontarono la pena imposta. Le amnistie, iniziando da quella del 22 giugno 1946 a firma di Togliatti, diedero il via alla liberazione di chi (donne e uomini) aveva collaborato col regime fascista. Molte di loro non subirono alcun provvedimento giudiziario perché, finita la guerra, erano sparite in attesa che si placassero gli animi. Seguirono le amnistie del ’48 e ’49. Con la legge 18 dicembre 1953, n. 921, si rese possibile la liberazione condizionale
“ai condannati per reati politici a prescindere dalla quantità della pena espiata e di quella da espiare, per semplice iniziativa del guardasigilli. In seguito a questa nuova disciplina, dal marzo 1954 al dicembre 1956 furono ammessi alla liberazione condizionale 104 collaborazionisti da parte del ministro Michele De Pietro e 17 da parte del ministro Aldo Moro. Le ultime liberazioni avvennero su iniziativa di Aldo Moro, guardasigilli nel primo governo Segni, dal 6 luglio 1955 al 15 maggio 1957.”
E così, nell’arco di dieci anni, le donne e gli uomini colpevoli di crimini fascisti, riacquistarono la libertà.
“La scelta politica dei primi governi del dopoguerra fu quella di dare largo spazio ai provvedimenti di clemenza per giungere in breve tempo alla “pacificazione nazionale”, a “voltare pagina” nei confronti del regime fascista. Le amnistie, così frequenti nell’Italia repubblicana, andarono a incidere in maniera determinante sullo svolgimento dei processi partendo dalla già ricordata amnistia, decisiva e precoce, del 22 giugno 1946, la cosiddetta amnistia Togliatti, guardasigilli nel primo governo De Gasperi”
La pacificazione nazionale si raggiunge dopo aver saldato i propri conti. Ma i conti con la Storia, noi italiani, non li abbiamo mai fatti. Pronti a criticare, a puntare il dito e condannare gli altri, ci siamo affrettati a nascondere le nostre colpe e responsabilità sotto lo zerbino e, nel timore che qualcosa s’intravedesse, ci abbiamo messo entrambi i piedi sopra. Questa, è la parte di noi che, da sempre, mi fa schifo.
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Titolo: Fasciste di Salò
Autore: Cecilia Nubola
Copertina rigida: 235 pagine
Editore: Laterza (31 marzo 2016)
Collana: Storia e società
Lingua: Italiano
ISBN-10: 885812376X
ISBN-13: 978-8858123768
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