Di libri e di letture
Se riusciste a capire questo,
voi che possedete le cose che il popolo deve avere,
potreste salvarvi.
Ho riletto, nella straordinaria traduzione di Sergio Claudio Perroni, FURORE di John Steinbeck.
Ho atteso il sonno della casa e dei suoi abitanti, poi ho aperto l’ereader e varcato il mondo dei Joad.
Ho percorso frasi e paragrafi come sentieri, e ho camminato a ritroso. Ho letto, riletto due, tre volte, assorbendo le parole come nutrimento vitale. Seguendo i Joad ho pensato a mio padre, uomo sanguigno, di poche parole; uomo dalle frasi spesso lapidarie, senza sfumature. Le sfumature erano solo per chi le sapeva cogliere nei suoi occhi balenanti o umidi, nel suono quasi impercettibile, simile a uno schiocco, che emetteva ogni volta che reprimeva la commozione, nel suo modo di chinare appena il capo e guardare di sghimbescio, col sorriso appena abbozzato di chi dice: non occorre che parli, ho già capito tutto. Mio padre era come il serpente alato che aveva ricavato da un tondino di ferro, e che è con me da sempre. Lui era così, nero e rosso come il suo serpente, nero e rosso come l’anarchia. Mi ha insegnato cosa sono la Libertà, la Dignità, la Resistenza, l’Uguaglianza, la Giustizia e il Coraggio senza spiegarli, senza farmeli cercare nel vocabolario rosso. Me l’ha insegnato con la sua filosofia semplice e folle, con esempi senza parole né spiegazioni. Lui era l’uomo rosso e nero che risolveva così: “Si prende dove c’è e si mette dove manca, così la fame insopportabile di qualcuno diventa fame tollerabile per tutti”. Avrò avuto tre anni, forse quattro quando, camminando a fianco di un fiume, impressionata dalla voce potente dell’acqua mi bloccai per la paura. Mi strinse la mano, disse: “La paura è una cosa da nulla”. Proseguimmo sul sentiero, lui fischiettando, io muta. Dopo un lungo tratto mi chiese: “Cos’è la paura?”, risposi: “Una cosa da nulla”. Non mi sottopose a superficiale quanto inutile retorica: con una manciata di parole mi aveva fatto comprendere che la paura aiuta a superare la paura stessa e, di conseguenza, affrontare tutto.
In FURORE, Steinbeck scrive che per creare un mondo servono dei requisiti naturali: un argine di fiume, un torrente, una sorgente o una presa d’acqua libera; della terra da abitare, da coltivare. Soprattutto serve unione, condivisione, perché un mondo è tale se venti famiglie sono una famiglia, se i figli di uno son figli di tutti, se cento individui sono un solo individuo con cento idee, se la forza di uno è forza anche dei più deboli. Sono principi che ho radicati nel profondo, che mi appartengono come mi appartengono il ricordo di mio padre e il suo serpente alato nero e rosso. Sono principi in cui credo fermamente, nonostante il mondo sia oppresso da un tirannico IO anziché da un libertario NOI.
Silenzio e tenebra sono elementi indispensabili per penetrare il magma umano di FURORE. Ci sono libri che chiedono di essere vissuti nell’intimità della notte. FURORE è uno di questi. Chissà, forse è perché alla luce del giorno non avremmo il coraggio di lasciarci togliere la pelle, perché metteremmo a nudo le nostre fragili sicurezze, le illusorie stabilità, le fatue certezze. E, in fondo, lo sappiamo tutti che l’unico mondo possibile è quello dove NOI è l’unico IO possibile. Ho vissuto con i Joad e con tutti gli ultimi della terra. Fratellanza, solidarietà, umanità sono diamanti, forza, linfa vitale. Loro ne erano consapevoli, noi dobbiamo imparare. Il finale ha in sé l’essenza della vita.
Leggetelo. Vivetelo. Regalatelo.
“Un uomo, una famiglia scacciata dalla terra; questa carretta arrugginita che arranca sulla nazionale per andare all’Ovest. Ho perso la mia terra, un singolo trattore ha preso la mia terra. Sono solo e sono smarrito. E nella notte una famiglia si accampa in un fosso e un’altra famiglia arriva e tira fuori le tende. I due uomini si accoccolano sui talloni e le donne e i bambini ascoltano. Ecco il nodo, per voi che odiate il cambiamento e temete la rivoluzione. Vi conviene tenere separati questi due uomini accoccolati, fare in modo che si odino, che si temano, che diffidino l’uno dell’altro. È questo l’embrione della cosa che temete. È questo lo zigote. Perché adesso “Ho perso la mia terra” è cambiato; una cellula si è scissa e dalla sua scissione nasce la cosa che odiate: “Abbiamo perso la nostra terra”. Ecco dov’è il pericolo, perché due uomini non sono soli e confusi quanto può esserlo uno. E da questo primo “noi” nasce una cosa ancor più pericolosa: “Ho poco da mangiare” più “Non ho niente da mangiare”. Se la somma di questi fattori dà “Abbiamo poco da mangiare”, allora la cosa è in marcia, il movimento ha una direzione. Adesso basta una piccola moltiplicazione, e questa terra e questo trattore diventano nostri. I due uomini accoccolati nel fosso, il fuocherello, la carne di maiale a bollire in una pentola condivisa, le donne mute con lo sguardo impietrito; dietro, i bambini che ascoltano con tutta l’anima parole che il loro cervello non capisce. La notte incalza. Il bimbo è raffreddato. Tieni, piglia questa coperta. È lana. Era la coperta di mia madre, usala per il tuo piccolo. È questa la cosa da bombardare. È così che comincia: da “io” a “noi”. Se riusciste a capire questo, voi che possedete le cose che il popolo deve avere, potreste salvarvi. Se riusciste a separare le cause dagli effetti, se riusciste a capire che Paine, Marx, Jefferson e Lenin erano effetti, non cause, potreste sopravvivere. Ma questo non potete capirlo. Perché il fatto di possedere vi congela per sempre in “io”, e vi separa per sempre dal “noi”.”
“Di sera avveniva una cosa strana: le venti famiglie diventavano una famiglia, i figli diventavano figli di tutti. La privazione della casa diventava una privazione comune, e gli anni felici nell’Ovest erano un sogno comune. E poteva avvenire che l’ammalarsi di un bambino gettasse nella disperazione i cuori di venti famiglie, di cento persone; che un parto in una tenda ammutolisse e raggelasse per un’intera notte cento persone, e al mattino colmasse di gioia per la nuova vita i cuori di cento persone. E che una famiglia che fino alla sera prima era preda di sgomento e smarrimento si ritrovasse a frugare tra le proprie cose in cerca di un dono da offrire per il nuovo nato. La sera, seduti intorno ai fuochi, i cento diventavano uno. Imparavano a diventare comunità da bivacco, comunità da sera e da notte. Qualcuno estraeva una chitarra dall’involto di una coperta e la accordava; e le canzoni che tutti conoscevano si levavano nella notte. Gli uomini cantavano le parole, le donne modulavano piano la melodia. Ogni notte nasceva un mondo, attrezzato e completo in ogni sua parte, con amicizie create e inimicizie sancite; un mondo completo di spacconi e di codardi, di uomini calmi, di uomini umili, di uomini cordiali. Ogni notte venivano sancite tutte le relazioni che formano un mondo; e ogni mattina quel mondo veniva smontato come un circo. Dapprima le famiglie erano titubanti nel costruire e formare le parole, ma gradualmente la tecnica di costruire le parole diventò la loro tecnica. Allora emersero capi, si stabilirono leggi, presero forma codici. E man mano che si spostavano verso ponente, i mondi diventavano più completi e meglio attrezzati, poiché i loro costruttori avevano maturato esperienza nel costruirli. Le famiglie impararono i diritti da rispettare: il diritto di riservatezza nella tenda; il diritto di tenere il passato nascosto nel profondo del cuore; il diritto di parlare e di ascoltare; il diritto di rifiutare aiuto o di accettarlo, di offrire aiuto o di ignorarlo; il diritto del figlio di corteggiare e della figlia di essere corteggiata; il diritto dell’affamato di essere nutrito; il diritto delle donne incinte e dei malati di trascendere ogni altro diritto. E le famiglie impararono, senza che nessuno glielo imponesse, quali diritti fossero mostruosi e andassero annientati: il diritto di violare la riservatezza, il diritto di far baccano mentre il bivacco dormiva, il diritto di seduzione o stupro, il diritto di adulterio e furto e omicidio. Tali diritti vennero estinti, poiché quei piccoli mondi non sarebbero sopravvissuti neppure per una notte con simili diritti in vigore. E man mano che i mondi si spostavano verso ponente, le regole divennero leggi, senza che nessuno lo imponesse alle famiglie. È contro la legge evacuare vicino al bivacco; è contro la legge insudiciare in qualsiasi modo l’acqua potabile; è contro la legge consumare cibi prelibati vicino a chi non ha da mangiare, tranne che lo si inviti a condividerli. E con le leggi, le punizioni. Erano solo due: o un immediato e sanguinoso pestaggio o l’ostracismo; e l’ostracismo era la peggiore. Poiché chi violava le leggi portava con sé il proprio nome e il proprio volto, e non trovava posto in nessun mondo, ovunque venisse creato. Nei mondi si formavano governi, con capi, con consiglieri. Chi era saggio scopriva che la sua saggezza era utile in qualsiasi bivacco; chi era stupido non poteva nascondere la propria stupidità in nessuno dei mondi. E in quelle notti si affermò una sorta di sistema di assicurazione. Un uomo provvisto di cibo dava da mangiare a un uomo affamato, e in tal modo si assicurava contro la fame. E se moriva un bambino, davanti alla sua tenda si formava una pila di monete d’argento, poiché un bambino deve avere una bella sepoltura, non avendo avuto altro nella vita. Un vecchio può essere lasciato in una fossa comune, ma un bambino no. Per la costruzione di un mondo occorrono determinati requisiti naturali: un argine di fiume, un torrente, una sorgente, o anche solo una presa d’acqua non vigilata; un’estensione di terra pianeggiante idonea a piantarci le tende; qualche cespuglio o un boschetto per la legna da ardere. Se a poca distanza c’è una discarica, meglio, poiché vi si può trovare materiale utile: griglie per cucinare, pezzi di lamiera curvi per schermare il fuoco, lattine per cuocervi il cibo o per mangiarlo.”
©Librisuldivanodeipigri
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Editore: Bompiani (6 novembre 2013)
Lingua: Italiano
Copertina flessibile: 633 pagine
ISBN-10: 8845274055
ISBN-13: 978-8845274053
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